Nella ricorrenza della cinquantenaria scomparsa di Angelo Musco.
A chi, della mia età, legge o rileggere Il riso di Bergson, si dispiega un ventaglio d'immagini che sono in minima parte memoria di situazioni e personaggi della vita reale, ma quasi tutte appartengono al mondo dello spettacolo teatrale e cinematografico e trovano, nel saggio di Bergson, una quasi indefettibile evocazione. In prevalenza sono evocazioni mute, di quando il cinema non parlava o di quando, pur disponendo della parola, il comico continuò - e continua - a consistere soprattutto negli atteggiamenti, nei movimenti, nei gesti di un essere umano e «in quell'esatta misura in cui tale essere appare simile a un meccanismo». La comicità di Charlie Chaplin, Harold Lloyd, Buster Keaton, Ridolini, nell'aureo silenzio del cinema, che era limite atto a potenziare il loro «meccanismo»; o dei fratelli Marx, Eddie Cantor, Jerry Lewis, Totò, Macario e altri comici, il cui «meccanismo» si avvantaggiava o scapito della parola, consisteva in atteggiamenti, movimenti e gesti per cui un essere umano, appunto perdendo di umana fisicità, acquistava essenza di «automate» (e la parola francese serve, più dell'italiana «automata», che ha preso significato più umano, a rimandare a quegli ingegnosi e perfetti meccanismi che, specialmente nel secolo XVIII, animavano orientaleggianti - da Mille e una notte - figure). E abbiamo nominato alla rinfusa, senza alcun giudizio di valore e senza misurare il grado della loro creatività, alcuni comici: per come si dispiegano nella nostra memoria, in certi casi lontana, di spettatori nel rileggere il saggio sul significato del comico di Bergson. (...) [Dall'introduzione di Leonardo Sciascia]