Post Date:


Quello del regista Damiano Damiani si è particolarmente distinto in Italia per essere stato uno dei migliori esempi di cinema “impegnato”, assieme a quello di grandi nomi come Elio Petri e Francesco Rosi. La sua opera di denuncia civile, circa le problematiche connesse alla criminalità organizzata e i rapporti che questa intesse(va) con le più alte sfere dello Stato, ha fatto sovente utilizzo della struttura del giallo e del genere gangster-noir, con una narrazione ricolma di spettacolarità.

Dopo Il giorno della civetta (1968) e Confessione di un commissario di Polizia al procuratore della Repubblica (1971), Damiani torna nuovamente a Palermo per vestire i panni del cine-inquisitore e sceglie, ancora una volta, il magnetico volto di Franco Nero come protagonista di Perchè si uccide un magistrato, superba pellicola che stavolta focalizza gli intenti di critica sul ruolo che i media giocano nella ricerca della verità dei fatti, puntando i riflettori sulla disonestà intellettuale e sulla strumentalizzazione di informazioni volutamente distorte (si ricorderà, a tal proposito, il bellocchiano Sbatti il mostro in prima pagina). Grazie all’espediente metafilmico il regista proietta sé stesso attraverso un alter ego, qui ben rappresentato da Franco Nero il quale deve districarsi all’interno di una spinosa vicenda, in cui finisce suo malgrado, e con un delitto “eccellente” da risolvere.

In uscita nelle sale palermitane, Inchiesta a palazzo di giustizia è l’ultimo film di Giacomo Solaris (Franco Nero), regista civilmente impegnato che ricostruisce le implicazioni e le connivenze mafiose di un importante magistrato, assassinato da uno dei suoi stessi fiancheggiatori al termine della visione. La pellicola, che nel frattempo riscuote un enorme successo di pubblico nonché profonda indignazione, è stata realizzata grazie alle inedite rivelazioni che Solaris ha ottenuto da un informatore nell’ambiente della polizia e dalla redazione di un giornale scandalistico, oltre che da un costruttore edile colluso, suo conoscente (Renzo Palmer). Tutti gli elementi del film sembrano ricondurre alla figura del procuratore Alberto Traini (Marco Guglielmi), il quale gode dell’appoggio politico e dell’insospettabilità presso il suo entourage che, anzi, fa un esposto per vilipendio alla magistratura nei confronti del regista. Le polemiche però non si placano. Solaris viene ammonito tanto da Traini stesso quanto dalla moglie Antonia (Françoise Fabian), che lo accusano di gettare discredito sull’operato del procuratore. Nello stesso momento in cui Solaris si trova in aeroporto per rientrare a Roma, giunge la notizia che Traini è stato assassinato da ignoti all’interno del parco della Favorita. La situazione precipita e a quel punto tutti additano come profetico il film di Solaris, il quale rinuncia alla partenza per indagare personalmente sull’omicidio, convinto che qualcuno possa aver tratto spunto dal suo film per eliminare lo scomodo magistrato.

Brillantemente congegnato, ritmato da un andamento incalzante (grazie anche alla colonna sonora di Riz Ortolani) e denso di colpi di scena, Perchè si uccide un magistrato rimane ancor oggi uno degli esiti più felici della carriera del regista friulano. La suggestione metacinematografica permette di incastonare gli intenti di denuncia all’interno di un quadro certamente intrattenitivo e spettacolarizzante, rendendo più sottile il messaggio che si vuole far passare ma ugualmente efficace. Il protagonista Giacomo Solaris mira, con la sua inchiesta, a portare scompiglio presso i vertici di una magistratura corrotta, puntando allo scandalo per ristabilire una giustizia al di fuori delle aule dei tribunali. Con la morte reale di Traini, lo stesso film diventa una profezia che si autoavvera ed il suo autore si trova a quel punto nella condizione necessaria di doverne comprendere i risvolti per confermare gli assunti di base. La scoperta di una nuova “verità” (lo spiazzante colpo di scena finale) che tuttavia non invalida le ipotesi di partenza (le inchieste sul magistrato mafioso), porta il protagonista a scegliere in merito all’opportunità di perseguire fino in fondo l’ideale di giustizia tanto decantato, malgrado ciò significhi un’implicita ritrattazione, sconfortante e beffarda, delle proprie intuizioni.
A margine di ogni valutazione critica va sottolineato come il film di Damiani, così come il suo precedente Confessione di un commissario di Polizia al procuratore della Repubblica, sia altresì un efficacissimo attestato descrittivo sul cosiddetto “Sacco di Palermo”, fenomeno avvenuto tra gli anni ‘50/‘60/‘70, oltre che sulle consuete dinamiche di Cosa nostra nell’ambito edilizio e sociale dell’epoca. Le immagini della città ne sono, peraltro, un sottotesto documentale.