Ideologicamente antitetici a Luigi Pirandello, esattamente trent’anni fa i fratelli Taviani, scoperto il “più grande narratore del mondo”, decidono di rappresentare “il Pirandello delle novelle contadine”, affabulandone i contenuti per mostrare con il loro singolare realismo lirico il mondo al contempo epico, elegiaco, straccione, doloroso e superstizioso degli ultimi della terra, degli umiliati e offesi, crocifissi in zolle pietrose, dure, drammaticamente inchiodati su campi arsi dal sole dominati da brulle colline e frustati dai venti impetuosi.
E all’enorme tempo del mondo contadino con le sue dilatate scansioni temporali, fatto di miti e credenze, d’antiche ritualità pagane, d’incanti e di misteri, d’arcano e di favole, di dolori e terrori, bisogna regredire per capire a fondo l’operazione antropologico-culturale dei due fratelli di San Miniato.
Sicché nel 1984 - dopo aver eletto a location la zona sud-orientale siciliana (Ragusa, Ispica, Donnafugata e zone limitrofe, solcate dai tipici muretti bianchi a secco, gli spazi angoscianti e meravigliosi di quella Sicilia più prossima all’ormai scomparsa civiltà contadina), i due registi presentano sugli schermi Kaos, traendo il titolo dall’antico toponimo di “Càvusu”, dalla vulgata corrotto in Kaos (la contrada in cui nacque Pirandello), addizionando a quattro racconti fetisch (L’altro Figlio, Mal di luna, La giara, Requiem) un prologo ed un epilogo sempre ispirati alle novelle: Il corvo di Mizzaro e Colloquio con la madre. Spesso però modificandone radicalmente i finali. L’universo ideologico dei Taviani non è quello conservatore e perfino reazionario di Pirandello, talché le correzioni e l’adattamento apportato gioca tutto a favore di quei reietti rappresentati, calpestati financo da una natura ostile. A dare continuità narrativa alle storie viene scelto il corvo che roteando alto nel cielo, dopo essere stato catturato e liberato con una campanella appesa al collo, intreccia (come la musica) vicende e personaggi, scampanellando sulle misere contrade siciliane, palcoscenico di grandiose vestigia del passato, sulle storie di morte e di violenza, di pietà e cupidigia degli esseri umani. Sulle vertiginose inquadrature dall’alto del tempio di Segesta, dei pietrosi precipizi sugli aridi campi, la colonna musicale sembra veristicamente farsi da sé per introdurre il miserabile epos d’un gruppo di migranti del primo racconto, L’altro figlio, protagonista una vecchia cenciosa e sporca, Mariagrazia (Margharita Lozano, doppiata da Fioretta Mari), violentata e ingravidata da un brigante assassino, da cui ha un figlio da lei aborrito per la perfetta somiglianza con il padre, ma in realtà docile e devoto.
Il racconto si chiude con Mariagrazia che si ostina a dettare l’ennesima lettera da spedire ai figli emigrati molti anni prima, da cui ormai è stata dimenticata, mentre all’altro figlio (Orazio Torrisi) respinto, per l’ennesima volta, non resta che allontanarsi sulla larga, deserta e calcinata trazzera. Sostanzialmente fedele (e sarà l’unico caso) all’impostazione pirandelliana anche la “mostrazione” dei Taviani, pur con qualche non determinante intervento modificativo. Introdotto ancora dall’alto volteggio del corvo e poi da una voce fuori campo, Mal di luna, il secondo racconto, si dispiega su una complessa e stratificata trama musicale sincronica, stabilendo proprio attraverso la musica un rapporto tra la luna e Batà (Claudio Bigagli), un contadino colpito da licantropia da poco sposo, tacendo alla moglie il suo strano e mitico male. Aggredito dal male con la luna in quintadecima, Batà inizia una penosa confessione alla consorte Sidora (Enrica Maria Modugno), la quale ha ora l’occasione di tradire il marito con Saro (Massimo Bonetti), il cugino che non ha potuto sposare perché povero e spiantato e che l’accompagnerà con la madre nella fattoria di Batà alla prossima luna piena. Alla fine la sconvolgente variante narrativa introdotta dai Taviani ne capovolge la morale: Batà il contadino, da piccino “incantato dalla luna” viene soccorso durante la crisi dal cugino che la moglie vorrebbe come amante; nella novella, di contro, non la pietas e la solidarietà umana ma lo sgomento di Saro riesce a bloccare l’intento fedifrago. “I Taviani…collegano la luna al tema dell’acqua e del seno materno: ciò di cui soffre Batà è il morso del tempo distruttore, ciò che lo afferra è il terrore seguito alla morte della madre. Al termine di ogni crisi…egli assume una posizione fetale” (A. Cattini).
Un ingresso trionfale, mentre il corvo - che fa da collante delle varie novelle - placido s’acquatta sul ramo d’un albero, annuncia l’arrivo nella masseria dell’orcio maestoso di Santo Stefano di Camastra, acquistato da Don Lollò per riversarvi l’eccedenza d’olio prevista per via dell’eccezionale produzione d’olive delle sue terre. La giara, terzo racconto già portato sullo schermo nel 1954 da Giorgio Pàstina, però a causa d’un avvenimento misterioso durante la notte viene trovata l’indomani mattina rotta in due grossi pezzi. Il furbo conciabrocche inventore d’un mastice miracoloso chiamato a ripararla, rimasto chiuso all’interno del gran coppo, riesce infine ad aver partita vinta sul litigioso e avarissimo Don Lollò Zirafa (Ciccio Ingrassia), il “carlomagno”, affetto - per dirla con Sciascia - da esasperato “giuridicismo” e cultore del verghiano mito della roba. “Voi l’avete rotta e io ho vinto!”, sbotta orgogliosamente Zì Dima (Franco Franchi) quando Don Lollò si decide finalmente di fracassare la giara che pretendeva ripagata dal conciabrocche, mentre i contadini godono d’una revanche traslata contro il cattivo signore momentaneamente disarcionato e piangente.
Un trionfo degli umili (con la ribellione chiaramente evidenziata da una danza notturna) ovviamente del tutto assente nella novella pirandelliana. Nell’epilogo infine (Colloquio con la madre), ricavato dalla seconda parte di “Colloquio con i personaggi” (la prima “interventista”, siamo allo scoppio della Prima guerra mondiale, è naturalmente del tutto ignorata dai Taviani), il fantasma della madre (Regina Bianchi) chiama Pirandello (Omero Antonutti) da Roma ad Agrigento per dirgli: “Impara a guardare le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne proverai dolore certo. Ma quel dolore te le renderà più sacre e più belle”. Liricamente al colloquio con la madre fa da pendant il viaggio compiuto dalla stessa madre ancora tredicenne, con le sorelle più piccole e due fratellini, per raggiungere il padre - fieramente antiborbonico ed esiliatosi a Malta dopo il 1848 - su una vecchia tartana con la vela rossa. Durante il viaggio la famigliola perseguitata incontra l’isola della pomice (Lipari), dove si decide di fare una breve sosta. Ed è in questo ricordo della scalata della montagna di pomice e del bagno in un mare di cobalto che affiora l’inestirpabile ricordo della fanciullezza perduta, del mito, della bellezza, della precaria felicità smarrita e mai più ritrovata.
Qui musicalmente gli stessi Taviani sentono il bisogno di abdicare, di rinunciare alla pur straordinaria musica di Nicola Piovani che fa di Kaos anche un poema musicale ed il compositore romano premio Oscar è costretto a cedere la bacchetta. Ma solo per arrendersi al più grande genio musicale mai vissuto: Wolfang Amadeus Mozart. Già introdotta durante il colloquio l’aria L’ho perduta me meschina dall’opera Così fan tutte, avvolge mestamente la grossa barca che dalla finestra si scorge in lontananza con un passaggio immediato dal presente al passato e con il ricordo della spiaggia di Lipari. E sul quel mondo sprofondato, avvolto dalle meste e sublimi note mozartiane il film sfuma come un sogno. Forse il momento liricamente più alto raggiunto dal capolavoro dei Taviani.