Il 3 gennaio 1902 nasceva Umberto Barbaro, teorico, critico del cinema e dell’arte figurativa, scrittore, drammaturgo, regista, sceneggiatore, traduttore di Bela Balàzs, Ejsenstejn, Pudovkin e Freud, cofondatore del Centro Sperimentale di Cinematografia.
Nato ad Acireale il 3 gennaio 1902 e morto a Roma il 19 marzo 1959, narratore, drammaturgo, storico, critico e teorico del cinema e dell’arte figurativa, regista, documentarista, sceneggiatore, giornalista e saggista, già a 21 anni direttore della rivista “La Bilancia” e a 27 elemento di spicco del “Movimento Immaginista”, Umberto Achille Daniele Barbaro è stato uno degli ingegni siciliani più eclettici e profondi. Potente e multiforme personalità artistica e culturale, scrive novelle grottesche (“L’essenza del can barbone”) e romanzi (“Luce fredda”, protagonista un piccolo borghese che s’atteggia a riformatore del mondo, ma nella realtà è solo un inetto; “L’isola del sale” ed altri), è autore di testi teatrali per il “Teatro degli Indipendenti” di Roma (“Scalari e vettori”, “Ancorato al nome di Maria”, “Il bolide”, il cui testo è andato smarrito, “L’Inferno: mistero contemporaneo in sette quadri”, “Le fatiche di Nozhatu”), in parte rappresentate a Roma da Anton Giulio Bragaglia, già regista cinematografico e creatore nel 1922 di “…un cabaret notturno intitolato Teatro degli indipendenti che promuove gli spettacoli più bizzarri ed attraenti, che chiude i battenti nel 1931”1. Collaboratore di molte riviste (dal 1927 al 1935: “La ruota dentata”, “Lo spettacolo d’Italia”, “2000”, tutti fogli d’avanguardia; “Italia letteraria”, “Educazione fascista”, “Saggiatore”, “Occidente”, “Roma”, “Oggi”; quindi dal 1936 al dopoguerra: “Lo schermo”, “Cinema”, “Si gira”, “Film”, “Bianco e Nero”, “Quadrivio” 2), poliglotta (conosce il russo e il tedesco), Barbaro traduce dal tedesco il poeta e drammaturgo Heinrich von Kleist; lo scrittore, drammaturgo e attore Frank Wedekind e il russo Michail Bulgakov. Già nel 1927 ne “La ruota dentata” comincia ad elaborare una sua teoria estetica, poi ripresa nel saggio “La camera oscura” pubblicato nel 1954 su “Filmcritica”.
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Il suo nome si ritrova nel 1928 tra i soci fondatori della cooperativa “Augustus”, promossa da Alessandro Blasetti, che immediatamente lancia una sottoscrizione pubblica con il compito di far risorgere l’industria cinematografica italiana (alla quale aderiscono decine di intellettuali) producendo “Sole” (1929, purtroppo andato perduto) regia dello stesso Blasetti, indicato come il film della rinascita del cinema italiano. Ideologicamente in linea con la politica rurale del fascismo Blasetti gira un suo personale “assalto al latifondo”, molto gradito dal Duce Benito Mussolini. Tra i soci della rivista “Cinematografo” fondata dallo stesso Blasetti, Barbaro (fino al 1928, critico d’arte, teatrale e letterario, novelliere) collabora contestualmente con altre testate. Così, appena un anno prima della prematura scomparsa, egli stesso commenta la sua conversione al cinema:
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Da subito sostenitore del realismo cinematografico ne prende senza mezzi termini decisamente le difese, scagliandosi contro quelli che chiama tecnicismi o vuoti virtuosismi:
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“Cinematografo” è una delle poche riviste intorno alla quale l’elaborazione teorica ed estetica subisce, in quel periodo, la massima accelerazione, ad opera di:
<<…una nuova generazione di critici, dotati di strumenti teorici nuovi e di competenze specifiche, una generazione divisa tra l’esercizio della critica come pratica ideologica e il lavoro critico come momento propedeutico a quello registico. Questa generazione da una parte trova il suo punto di massima aggregazione nel gruppo di “Cinematografo”, dall’altra si può formare in senso teorico per merito della figura di una outsider, Umberto Barbaro, che appare, fin dai suoi primi interventi, come la personalità più capace di aprire, grazie alla sua conoscenza diretta dei testi dei maggiori teorici stranieri, russi e tedeschi contemporanei in senso antidealistico, tutto un nuovo campo di problemi per la critica cinematografica>>6.
Impegnato a tradurre e divulgare le opere chiave della triade dei grandi maestri, Bela Balàzs, Ejsenstejn e Pudovkin (“Film e fonofilm”, la più importante raccolta di saggi teorici di Pudovkin, “L’attore nel film”), Barbaro elabora - a seguito dello studio del cinema sovietico del periodo rivoluzionario - la sua teoria dell’espressione cinematografica, pubblicata poi in “Film, soggetto e sceneggiatura” (1939, Edizioni Bianco & Nero), frutto delle lezioni tenute al Centro Sperimentale di Cinematografia. Per primo rivaluta, strenuo paladino e maggior teorico italiano del realismo, il mitico Sperduti nel buio (1914) di Nino Martoglio e Roberto Danesi (spesso erroneamente attribuito al solo Martoglio), interpretato dal catanese Giovanni Grasso e Virginia Balistrieri, che non esita a definire “il miglior film di tutta la cinematografia italiana”:
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Nel 1933 “inevitabilmente” esordisce alla regia con il documentario I cantieri dell’Adriatico, prodotto dalla “Cines”,
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Scrive il soggetto e collabora con Aldo Vergano alla sceneggiatura di Seconda B (1934) di Goffredo Alessandrini, massicciamente modificata dal regista in accordo con la produzione (variazioni che ne provocano la richiesta di cancellarne la firma), atroce scherzo di un’allieva che si finge innamorata di un professore. Presentato alla Mostra di Venezia del 1934 (interpreti: Maria Denis e Sergio Tofano):
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Del film L’ultima nemica (1938) di cui, oltre ad essere regista, è anche soggettista e insieme a Francesco Pasinetti sceneggiatore, oltre alla regia Barbaro cura anche il montaggio con Vincenzo Sorelli. Alquanto rocambolesca la trama, pur tuttavia dalle forti significazioni simboliche: una prostituta si inietta per riconoscenza, all’insaputa dello scopritore, un siero contro la febbre di Tasmania e muore. Il medico allora sospende le ricerche, ma sollecitato da Roma le riprende, finché un giorno giunge notizia che la sua ex fidanzata ha contratto il morbo. Egli prova il siero su se stesso e quindi sulla ragazza, che guarisce. Rifiutandosi di riprendere la vecchia relazione il medico si dedicherà esclusivamente alle sue ricerche. Cast blasonatissimo: Maria Denis, Fosco Giachetti, Mario Pisu, Otello Toso, Alida Valli, Giuliana Gianni, Elena Zareschi. Accolto da un giudizio critico negativo pressoché unanimemente (sceneggiatura schematica, ambientazioni disadorne…), L’ultima nemica è, secondo altre più ponderate valutazioni, un film
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Insieme a Luigi Chiarini, Amleto Palermi e Francesco Pasinetti scrive la sceneggiatura de La peccatrice (1941) soggetto e regia di Amleto Palermi (nato a Roma da genitori siciliani) in cui chiaramente s’avverte l’influenza di Giovanni Verga, triste vicenda di una provinciale (Paola Barbara) sedotta e messa incinta da un giovane di pochi scrupoli (Gino Cervi), quindi abbandonata e precipitata nel baratro della prostituzione, ma alla fine pentita tornata a casa dove la madre l’attende e la perdona. Particolarmente efficace una delle ultime sequenze, quella nella quale la sedotta rivede (non vista) il seduttore che s’appaga con il cibo al tavolo d’un ristorante, commentata da una colonna sonora che ne rafforza il disprezzo della donna. Tra gli altri notissimi interpreti: Vittorio De Sica, Fosco Giachetti, Umberto Melnati, Camillo Pilotto, Bella Starace Sainati (la madre). Nel 1942, sempre con Pasinetti e Chiarini, scrive la sceneggiatura di Via delle cinque lune (1942, autoprodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia), regia di Luigi Chiarini, liberamente tratto dal racconto “O Giovannino o la morte” di Matilde Serao, ancor più del precedente colmo di chiari rimandi verghiani: Sora Teta (Olga Sobilli) incapricciatasi dello squattrinato spasimante (Andrea Checchi) della figlia Ines (Luisella Beghi), riesce a farselo amante all’insaputa di questa. Dopo qualche tempo, il giovane apparentemente ravvedutosi sembra finalmente ritrovare pace, ma Teta torna ad irretirlo. Un giorno tornando improvvisamente a casa la povera Ines scopre la tresca e disperata si uccide, precipitando dalla tromba delle scale. Insomma una “lupa” riveduto e corretto. Nello stesso anno insieme a Vitaliano Brancati e il “sodale” Chiarini è ancora autore della sceneggiatura de La bella addormentata (1942, tratto da Rosso di San Secondo ) regia di Luigi Chiarini:
<<Di tendenza formalista e calligrafica - come si definisce “l’opposizione passiva” del cinema dei primi anni ’40, realizzato in stretta collaborazione con un gruppo di intellettuali antifascisti chiaramente influenzati dalle esperienze figurative francesi - è invece il più corposo dramma La bella addormentata (1942) del critico di fede fascista e teorico romano della “assoluta forma” Luigi Chiarini, professore e direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia, onnipresente dal 1936 al 1940 nelle giurie cinematografiche, sceneggiato dal marxista acese Umberto Barbaro, Brancati, Pasinetti e lo stesso Chiarini, macedonia di cervelli ideologicamente opposti. Amara e tragica storia della bella orfana Carmela (Luisa Ferida) sedotta da un notaio di pochi scrupoli (Osvaldo Valenti), diventata prostituta in preda ad un sogno di purezza inviolata e poi salvata da Neri della zolfara (Amedeo Nazzari), un mafioso gentiluomo che si fa giustizia da sé imponendo al notaio Tremulo (qui l’autore sembra far uso della tecnica dell’attribuzione ai personaggi delle caratteristiche morali in base al nome) le nozze riparatici. Ma il giorno delle nozze Carmela sviene e si ammala gravemente. Prima di morire confessa che Neri era il suo unico amore e proprio la sua incomprensione ne ha provocato la malattia.
“L’avventura colorata” (come l’aveva definita l’autore) trasfigura nel travaso cinematografico non solo l’immagine della protagonista, qui solo preda indifesa di appetiti sessuali, ma imprime al racconto perfino l’assetto ideologico di un dramma di classe, che la prepotente personalità del marxista Umberto Barbaro, strettissimo collaboratore di un intellettuale fascista come Chiarini, impone nel clima di “dittatura imperfetta” del fascismo, in cui s’incontrarono in arditi sincretismi culture diversissime, dando vita ad esperienze irripetibili e per molti versi eccezionali. E tra esse La bella addormentata, vera e propria tragedia degli errori, versione capovolta della commedia plautina, dove la conclusione della vicenda dell’umile servetta e orfana sedotta, si risolve nel dramma e chiude cupamente un’impossibilità di riscatto. In definitiva la presenza dell’aristocratico Rosso nella cinematografia italiana appare più casuale che programmata, quasi un prestito occasionale di un intellettuale pessimista e dal verso inquieto, che raggiunge il massimo rilievo artistico cinematografico solo in occasione della scelta del testo operata da Chiarini, generalmente considerato il suo film migliore>>11.
Subito dopo, il consolidato terzetto di sceneggiatori (Barbaro-Chiarini-Pasinetti) firma La locandiera (1943) regia di Chiarini, liberamente tratto dall’omonima e celeberrima commedia di Carlo Goldoni, in cui appare il tandem degli “amanti maledetti”, Luisa Ferida (Mirandolina) e Osvaldo Valenti (il conte di Ripafratta), di la a poco fucilati dai partigiani. Molti e notissimi gl’interpreti, tra cui: Camillo Pilotto, Elsa De Giorni, Paola Borboni, Olga Solbelli, Mario Pisu, Gino Cervi e il catanese adottivo Saro Urzì. Scrive ancora (con Gaetano Amata e Gian Bistolfi) la sceneggiature di Paura d’amare (1942), stravagante caso d’innamoramento di un giovane per una ballerina e sempre con Amata e Tullio Piacente quella de La figlia del forzato (1953, tratto da “La morte civile” di Giacometti), con Arnoldo Foà e Isa Pola, opera dalla trama vertiginosa e dalla chiusa straziante sullo sfondo dell’impresa garibaldina, entrambi per la regia di Gaetano Amata. Ancora mélo, per quanto improntati ad una forte carica realistica, di cui quest’ultimo può considerarsi un modello esemplare. Diverso timbro drammatico vibra nell’incalzante Caccia tragica (1948) di Giuseppe De Santis, per il quale l’Acese scrive la sceneggiatura insieme a Corrado Alvaro, Michelangelo Antonioni, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Puccini e Cesare Zavattini (soggetto di De Santis-Lizzani-Rem Picci), dove echeggiano ancora gli odi non placati della guerra appena finita, ma concluso con un perdono collettivo che metaforicamente sembra invitare alla pacificazione nazionale. Una banda di banditi assalta un camion su cui viaggiano gli sposini Michele (Massimo Girotti, il divo perennemente dalla parte dei giusti) e Giovanna (Carla Del Poggio) e ruba i soldi di una cooperativa agricola. Dei malfattori fanno parte Alberto (Andrea Checchi, specializzato nei ruoli di “cattivo”), compagno di prigionia di Alberto, e la sua amante Daniela (Vivi Gioi), ex collaborazionista. Giovanna viene presa in ostaggio, ma presto la banda è accerchiata e Alberto per impedire che Daniela faccia esplodere delle mine per uccidere gli assedianti, uccide la donna. Catturato dai contadini della cooperativa, su intervento di Michele che invoca il suo perdono, viene lasciato libero. Dirige i documentari Carpaccio (1947) e Caravaggio (1948), realizzati con la consulenza di Roberto Longhi e dove continua a mettere in pratica le sue teorizzazioni. Appare non accreditato nel folto gruppone degli sceneggiatori (tra cui Brancati) di Fabiola (1949) regia di Alessandro Blasetti, un peplum ante-litteram (i film storico-mitologici che di enormi fortune avevano goduto nel periodo del muto e che verranno ripresi, con apprezzabile successo di pubblico, tra la fine degli anni Cinquanta e il primo scorcio dei ’60), ambientato al tempo delle persecuzioni cristiane, lotte di gladiatori, amori infelici e l’affermazione del cristianesimo con Costantino. Sceneggia anche il polacco, mai giunto in Italia, Il passo del diavolo (1949) di Tadeus Kauski e Aldo Vergano. Con Luigi Freddi, Pasinetti, Blasetti e Luigi Chiarini, è tra i fondatori del Centro Sperimentale di Cinematografia (1935, del quale diviene docente) e della rivista “Bianco&Nero”, il maggiore periodico italiano di elaborazione teorica della cultura cinematografica, dove pubblica numerosi saggi , che dirige dal 1945 al 1948. Dal 1945 al 1947 ricopre l’incarico di Commissario straordinario del Centro Sperimentale di Cinematografia. Ma laddove non interviene il fascismo arriva la mannaia della Repubblica, sicché finita la fase del commissariamento, viene clamorosamente rimosso anche dalla docenza. Traduce, quindi, Sigmund Freud (“I nuovi saggi di psicanalisi”, 1947, di cui cura anche l’introduzione), collabora come critico cinematografico militante a “L’Unità”, al settimanale “Vie Nuove” e a “Filmcritica”.
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Consulente e insegnante presso la Scuola superiore di cinematografia polacca a Lodz (la cui direttrice sposerà) che ha editato le dispense delle sue lezioni, dirige il settimanale “L’Eco del cinema”, scrive “Il cinema e l’uomo moderno” (1950) e “Poesia del film” (1955, organica raccolta di saggi). Cura con Chiarini l’antologia “Problemi del film”. La rivista “Cinemasessanta”, nel dossier a lui dedicato (n. 302, ottobre-dicembre 2009), ha pubblicato il soggetto cinematografico “Fratelli d’Italia” su Carlo Pisacane, scritto insieme a Chiarini probabilmente a cavallo tra gli anni quaranta-cinquanta. Padre spirituale del neorealismo italiano, sostenitore “dell’opera d’arte collettiva”, dello “specifico filmico” e del montaggio come produttore di idee e “come base estetica non solo del film ma di ogni arte”, si batte sempre coraggiosamente per propugnare le sue idee.
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Il suo ponderoso lavoro teorico, fondato sul materialismo dialettico, è teso sostanzialmente al superamento della cultura estetico-idealista italiana che “negava valore all’esecuzione, ponendo l’accento sulla fase di concreta applicazione ed esecuzione materiale, sull’attuazione come progetto di un fantasticare storico”14. Ma grande attenzione Barbaro dedica anche ai problemi dell’attore il cui lavoro
<<...è un’interpretazione di un’opera precedentemente realizzata; chi crede che l’attore sia un integratore indispensabile dell’opera scritta che la vivifica e la completa, parte evidentemente da una incompletezza di quell’opera e dall’idea di uno spazio vuoto che l’attore e la rappresentazione debbono colmare...Ma poeta, lettore, critico o attore la differenza non è che di gradi: tutti pensano presupponendo (storicamente) la propria personalità. Il poeta crea, presupponendo il suo mondo, ed è critico in quanto commisura ogni elemento al proprio organismo estetico, respingendo quello che non è coerente con la sua armonia; il lettore, il critico e l’attore creano commozioni e interpretazioni presupponendo ancora se stessi ma un se stesso, alla formazione del quale concorre l’ideale dell’opera d’arte che leggono, giudicano, rappresentano>> 15.
Parte significativa delle sue opere sono state raccolte nei volumi postumi: “Il film e il risarcimento marxista dell’arte” (1960), “Servitù e grandezza del cinema” (1962, a cura di Quaglietti), “Neorealismo e realismo” (1973, curato da Gian Piero Brunetta) e “Il cinema tedesco” (1973, a cura di Mino Argentieri). A Roma gli è stata dedicata una biblioteca ed una strada. La rivista “Filmcritica” gli ha intitolato un premio nazionale. Storici del cinema, del teatro e della letteratura (Brunetta, Carpi, Di Giovanna, Durante, Verdone), a conferma dello straordinario contributo intellettuale, si sono occupati della sua profonda riflessione teorica sul cinema in ponderosi saggi16.